Gli integratori di vitamina D servono davvero per prevenire fratture e malattie?

Uno studio mette in dubbio l’efficacia dei supplementi per la prevenzione di problemi muscoloscheletrici. Gli integratori possono servire solo a chi è ad alto rischio di deficit perché ha gravi sindromi da malassorbimento o si espone pochissimo alla luce solare

Non è una semplice vitamina ma, come si è scoperto in questi ultimi anni, una sorta di ormone che modula l’attività del sistema immunitario e non solo: la vitamina D è diventata perciò protagonista di studi in cui si è accertata una correlazione fra bassi livelli nel sangue e innumerevoli patologie, da quelle cardiovascolari alle metaboliche, da malattie neurologiche come la sclerosi multipla a problemi respiratori come l’asma. Non c’è quasi condizione in cui non si sia osservato un calo della vitamina D e da qui a consigliare l’integrazione quasi a tutti il passo è stato breve; oggi però uno studio pubblicato sul British Medical Journal “smonta” la raccomandazione spiegando che non ci sono sufficienti dati per ipotizzare benefici consistenti dai supplementi di vitamina D come prevenzione di fratture o problemi cardiovascolari o potenziamento del sistema immunitario.

Meglio la vitamina D «naturale»

I ricercatori sottolineano come oggi in alcuni Paesi il 30-50 per cento della popolazione anziana assuma regolarmente integratori di vitamina D, anche sulla scia di raccomandazioni come quelle dell’agenzia governativa Public Health England che consiglia di introdurne almeno 10 microgrammi al giorno per proteggere muscoli e ossa. Tuttavia, analizzando la mole di sperimentazioni sull’argomento, la certezza di un effetto preventivo sembra non esserci: «Sono state pubblicate oltre 50 metanalisi sull’integrazione di vitamina D e gli effetti su cadute e fratture, alcune riferiscono piccoli vantaggi, altre nessuno. E se si considerano tutte le sperimentazioni randomizzate e controllate sul tema (ovvero gli studi condotti secondo i criteri più rigorosi, ndr) gli effetti sulla densità ossea, le cadute e le fratture sono nulli – scrivono gli autori –. L’associazione della vitamina D al calcio sembra positiva in casi specifici, come donne anziane in strutture residenziali con grosse carenze vitaminiche; nella maggior parte delle tante patologie non muscoloscheletriche in cui si è verificato un deficit di vitamina D, i dati raccolti a oggi non consentono di trarre conclusioni certe sui possibili benefici dei supplementi». I dati positivi, secondo i ricercatori, arrivano da studi di osservazione meno “forti” per arrivare a un verdetto sicuro e anche le sperimentazioni in corso non sembrano poter cambiare le carte in tavola. Morale, gli integratori possono servire solo a chi è ad alto rischio di deficit perché per esempio ha gravi sindromi da malassorbimento o si espone pochissimo alla luce solare; anche in questi casi peraltro non bisogna mancare di intervenire soprattutto con le modifiche di dieta e stile di vita.

Quando serve allora l’integrazione?

La posizione dei ricercatori inglesi è chiara, i supplementi servono solo quando c’è una carenza “conclamata”. Il punto è che tanti europei, complice il cambiamento dello stile di vita, sarebbero a rischio deficit stando a numerosi studi epidemiologici: alcune stime si spingono a ipotizzare un 70 per cento della popolazione con bassi livelli di vitamina D, dati più certi dovrebbero arrivare a breve dal progetto europeo ODIN ma secondo molti non c’è di che essere ottimisti. «Gli scarsi livelli di vitamina D dipendono soprattutto da insufficienti meccanismi di sintesi da parte dell’organismo e possono avere conseguenze importanti sulla probabilità di rachitismo e osteoporosi – osserva Franca Marangoni di Nutrition Foundation of Italy, fra gli autori della prima Revisione scientifica sull’integrazione alimentare sulla base delle evidenze scientifiche condotta in Italia, pubblicata a giugno scorso da Integratori Italia – AIIPA –. Molte ricerche indicano che l’apporto di vitamina D, le cui fonti alimentari sono piuttosto limitate, è inadeguato specie nelle zone geografiche e nei periodi dell’anno meno soleggiati. L’adozione di uno stile alimentare vario ed equilibrato, soprattutto in persone fisicamente attive, è sufficiente a garantire alla popolazione generale sana tutti i nutrienti necessari; tuttavia sempre più dati indicano che occorre fare attenzione alla copertura delle necessità nutrizionali anche nei Paesi industrializzati, perché le necessità non sono uguali per tutti e quando il fabbisogno aumenta o lo stile di vita e la dieta non sono adeguati l’integrazione è una strada sicura e utile da percorrere».

Attenzione specifica alle donne

Il problema maggiore è la scarsità di vitamina D negli alimenti che si rivela «pericolosa» soprattutto nel sesso femminile, come sottolinea anche Vincenzo De Leo, ginecologo dell’università di Siena: «Pochi cibi sono una fonte adeguata di vitamina D, come il pesce azzurro, il tuorlo d’uovo, le noccioline e alcuni funghi. Questa vitamina però, giocando un ruolo chiave nella regolazione del metabolismo del calcio e del fosforo, ha un ruolo fondamentale nel metabolismo osseo ed è essenziale perciò che le ragazzine non sviluppino deficit: vanno valutate le variazioni stagionali di esposizione al sole, per cui ogni Paese dovrebbe considerare la situazione locale ed eventualmente promuovere una supplementazione per le adolescenti durante l’inverno. L’integrazione è utile poi in pre-menopausa, per contrastare il rischio di sviluppare osteoporosi e quindi di fratture, e ancora di più durante la post-menopausa quando la fragilità ossea aumenta». In alcune situazioni, in altri termini, l’integrazione può e deve essere presa in considerazione e lo scetticismo a tutto campo può essere perfino pericoloso, come ha sottolineato David Richardson, nutrizionista dell’università di Reading: «Non valutare i livelli di vitamina D in fasi critiche come l’infanzia, l’adolescenza, l’età fertile femminile e negli anziani può avere serie conseguenze di salute pubblica nel lungo termine: abbiamo sempre maggiori prove che indicano un’alta prevalenza della carenza di vitamina D in molti Paesi».

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